Nacque ad Orvinio (già Canemorto), nel Reatino, nel 1600 da Lucia e da Ascanio, pittore che era stato allievo di C. Roncalli.
Secondo Orlandi il M. mosse i primi passi nella bottega del padre, i cui insegnamenti furono utili per recepire tanto le teorie artistiche della cosiddetta cerchia dei Crescenzi, con la quale Ascanio era in contatto, quanto la cultura figurativa del tardomanierismo d’ascendenza romana. Parallelamente, il M. accolse anche le novità del classicismo di marca emiliana e gli aggiornamenti linguistici provenienti da Roma: o con la mediazione delle opere presenti in Sabina (di G.F. Romanelli, A. Sacchi, G. Gimignani, G. Cerrini, G.A. Galli detto lo Spadarino) o attraverso la conoscenza diretta dei cantieri romani più importanti.
Queste due componenti si rivelarono fondamentali nell’elaborazione di un repertorio formale personale, peraltro decisamente stereotipato, che il M. seppe diffondere oltre i confini laziali, a conferma di un successo duraturo e piuttosto insolito per un autore che scelse deliberatamente di operare in provincia. Le personalità cui il M. si sarebbe riferito furono da principio il Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), con il quale, si ipotizza, collaborò nella basilica di S. Pietro (Tozzi, p. 105); in un secondo momento il Domenichino (Domenico Zampieri) che fu, forse, il suo vero maestro. Proseguendo un cammino intrapreso dal padre, il M. volle specializzarsi in scene di soggetto sacro con forte valenza ritrattistica, rivelatrici di molteplici rimandi a quel “linguaggio ecumenico e cordiale, di larga disponibilità e accessibilità, didatticamente incisivo e emotivamente coinvolgente” elaborato nei primi anni del Seicento, a dimostrazione di un vero e proprio culto per la “figura tornita, isolata nello spazio, impettita e inquieta” (Il cavalier V. M., 2003, pp. 2 s.) che si ravvisa in molti personaggi da lui dipinti.
Negli anni Venti il M. dovette allontanarsi da Orvinio, perché fu accusato di aver aggredito una fanciulla in seguito a una crisi di gelosia. Raggiunto dal genitore, trovò riparo in Abruzzo grazie al favore dei nobili Ricci, originari di Rieti, che tra il 1629 e il 1630 gli allogarono la decorazione di alcuni possedimenti familiari.
Distrutto nel 1703 il palazzo di Montereale in seguito a un violento sisma, qualcosa degli affreschi del M. di soggetto mitologico è ancora possibile osservare nella villa Ricci Valentini a Mopolino.
Subito dopo il M. rientrò in Sabina, presumibilmente a Rieti (Tozzi, p. 11), e sposò Beatrice De Amicis nel 1631. Evidentemente fu riabilitato dalla cittadinanza, poiché dopo il 1633 gli fu concesso il titolo di cavaliere e fu accettato tra gli amministratori locali. In seguito il M. affrescò, a Rieti, le lunette sovrastanti i portali della cattedrale (Vergine e santi).
Non sono esempi di grande valore, anche a causa di vaste ridipinture, e tuttavia la particolare valenza devozionale delle scene valse al M. il successivo ingaggio per l’ornamentazione di due cappelle interne. Nel frattempo egli si era spostato nel chiostro nuovo del convento di S. Domenico, per realizzare alcune lunette con Storie di s. Colomba, attualmente considerate la sua prima impresa pubblica autonoma (1634). Anche in questo caso gli episodi sono di difficile lettura a causa di una diffusa consunzione e di numerosi rifacimenti. I
In quegli anni il M. si impegnò nella ricerca di un linguaggio il più possibile svincolato dalla tarda maniera assorbita durante l’apprendistato. A tal fine, dopo aver lavorato a Poggio Mirteto e a Fara Sabina, si sarebbe recato a Roma, come testimonia una lettera del 10 maggio 1635 inviata dal padre al governatore di Rieti (Del Frate, p. 9 n. 10). L’esito positivo del viaggio è visibile nelle cappelle della cattedrale reatina, segnatamente in quella dedicata a S. Giuseppe che ospita diversi riquadri ad affresco, sia sulla cupola sia sulle pareti laterali.
È evidente la tendenza del M. a dilatare oltremodo le scene, col risultato di rivelare un certo impaccio; pur tenendo conto che codeste scelte compositive dovevano incontrare il gusto attardato della committenza, sarà forse il caso di ammettere che al M. la tecnica ad affresco fu meno congeniale della stesura su tela, soprattutto per le figure – qui monumentali ma decisamente troppo statiche – per le quali talvolta egli fu costretto al recupero di stilemi arcaizzanti. Le composizioni sembrerebbero essere addirittura calchi ingranditi di due episodi perugineschi dipinti per la chiesa di S. Maria Nova a Fano.
Il secondo matrimonio del M. (con Margherita Oddi da Moricone) risale al 1638, subito prima di un’intensa campagna decorativa nei luoghi di culto di Subiaco, di cui restano opere soltanto al Sacro Speco e in S. Maria della Valle. Una testimonianza di maggiore ampiezza è invece quella data dalle Scene di storia locale e da una Madonna in adorazione del Bambino rinvenuti dopo il 1960 nel palazzo dei Priori di Rieti.
Ulteriori testimonianze del suo operato si possono rintracciare a Montopoli Sabina (1645), a Subiaco (1646), a Rieti (1647) e a Farfa, dove si stabilì nel 1648 a decorare il refettorio dell’abbazia benedettina. Il secondo viaggio in Umbria è databile al primo quinquennio degli anni Cinquanta e si svolse tra Narni, Norcia e Ancarano; in quest’ultima località è conservata, presso la chiesa di S. Benedetto, la tela con la Madonna del Rosario priva delle usuali rappresentazioni dei Misteri, oggetto di un furto avvenuto pochi anni fa.
Verso il 1655 il pittore sostò per la terza volta a Subiaco e la Mensa di s. Gregorio Magno, nel refettorio di S. Scolastica, può considerarsi tra i suoi capolavori. Inedito e immediato è il riferimento all’opera omonima del Veronese (P. Caliari), soprattutto per l’uso massiccio di architetture e la notevole galleria di ritratti. Molto spazio viene concesso al paesaggio e al profilo di Roma, delineata sulla destra coi suoi edifici più rappresentativi. Successivamente il M. tornò nella cittadina d’origine e continuò a dipingere nel territorio circostante. Tra i quadri del periodo più tardo è da segnalare la Comunione della beata Colomba, per la chiesa reatina di S. Pietro Martire (1659), assai delicata nella fattura e nella resa degli atteggiamenti.
Il Manenti morì a Orvinio il 19 marzo 1674.